Sono giorni strani. Non brutti, strani. In tempi di crisi me la sono cavata sempre bene. Quasi meglio che in altri. Penso all’estate che mi annoia, al mare che mi annoia, all’incapacità di leggere sotto l’ombrellone come invece tutti dicono di riuscire a fare, all’incapacità di star ferma. Ho bisogno di muovermi, di farlo velocemente, di fare otto cose contemporaneamente, di dimenticare e di bruciare il pollo nel forno mentre mando una mail, di chiudere una telefonata con un cliente e rimproverare Alice perché mentre parlo mi chiede qualcosa facendo i mimi e così finisce che non capisco cosa dice il cliente e nemmeno cosa vuole lei. E invece adesso tutto si è fermato. Tutto è lento. Tocca fare una cosa per volta, non perché tocchi ma perché non corri il rischio di perdere l’aereo, non corri il rischio di arrivare tardi in Tribunale, non corri il rischio di dimenticare la toga a casa, non corri il rischio di accompagnare Alessandro a lezione di inglese l’ora dopo o il giorno dopo perché ti sei confusa. Si è fermato tutto. Tutto tranne la cattiveria. Quella me la sento addosso: ogni volta che entro su Twitter mi arriva in faccia come uno sputo. E così entro di meno, mi preservo.
Leggo qualcuno che scrive “Ne usciremo più forti, siamo tutti più uniti, questo virus ci ha fatto capire un sacco di cose”. No! Per me non accadrà tutto questo. I cattivi son rimasti tali, son persino peggiorati. Chi pensava a se stesso lo fa in maniera più decisa, chi soffriva per gli altri, morti di fame, di guerra, di solitudine, soffre ancor di più. Perché l’impotenza è un pugno nel naso che fa molto male.
Chi era sciacallo prima continua ad esserlo ora e lo sarà poi. Non c’è virus che possa fermarlo.
E rifletto sulla mia vita, sulla mia scelta, presa anni fa, di lasciare per strada le persone pesanti, noiose e lagnose. Insieme alla scelta di non voler o dover piacere. Il tempo è prezioso, lo è la vita, e se vuoi piacere agli altri finisci per non piacere a te stessa. Così realizzo che in questi giorni non sto imparando nulla di nuovo, non sto apprezzando persone che prima non apprezzavo e non sto sentendo la mancanza di persone che prima non mi mancavano. Sto solo bevendo il caffè lentamente, gustandolo, sto solo leggendo un libro di giorno piuttosto che di notte, sto solo assaporando la lentezza e trovando conferme: ho sempre amato la solitudine. Quella che fa impazzire chi non riesce a star solo con se stesso e che per tanti invece è un lusso. Ho smesso di guardare conferenze stampa, ho smesso di interpretare ogni modulo di autocertificazione che una volta stampato dura meno della vita di una farfalla divenuta alata. Non voglio conoscere il numero dei morti ogni giorno alle sei. Servirebbe solo ad intristirmi e io ho imparato a volermi bene. Aspetto il nuovo inizio perché gli inizi mi hanno sempre eccitata: l’inizio di una nuova materia all’università, l’inizio di un nuovo amore, l’inizio di un nuovo processo complesso, l’inizio di una nuova sfida, di una nuova battaglia. E sorrido, mentre abbasso lo sguardo nella tazzina del secondo caffè e mentre penso ad Alice che pur di non studiare mi fa domande assurde delle cui risposte non le frega assolutamente nulla. Le serve solo prendere tempo. Ma è serena. E tanto mi basta.